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GIOACCHINO BELLI

Gioacchino Belli è tradizionalmente considerato il poeta di Roma. Fra il 1824 e il 1846 scrisse oltre 2.200 sonetti, ognuno dei quali è una fedele riproduzione della città dei primi dell'Ottocento. La sua introduzione alla raccolta di sonetti inizia con queste parole: "Io ho deliberato di lasciare un monumento alla plebe di Roma...". Egli tuttavia era in netto contrasto con la struttura sociale del suo tempo. Roma era governata dal pontefice: "il Papa Re". Un ristretto numero di aristocratici e l'arrogante clero costituivano le classi sociali più alte, il cui potere aveva ormai perso qualsiasi giustificazione storica o morale; a loro si contrapponeva il popolino, fanatico e superstizioso, i cui unici diversivi erano le molte manifestazioni di piazza indette per celebrare e glorificare le classi dominatrici, e le altrettanto numerose pubbliche esecuzioni (tanto che uno dei boia, Giovan Battista Bugatti detto Mastro Titta, divenne addirittura un personaggio famoso). "I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n'ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie".


Belli era un intellettuale e forse anche un moralista. Scrisse i sonetti con l'intento di mettere alla berlina l'ipocrisia di questa società decadente, nel vano tentativo di vederne cambiare la secolare struttura. La sua satira pungente ha dato vita a un gran numero di vignette ricche di spirito, celandovi talvolta amare considerazioni sulla vita e sulla condizione dell'uomo. Alcuni dei sonetti hanno per tema soggetti biblici; in essi i personaggi parlano, pensano e agiscono alla stregua di tipici esponenti del popolo romano. Belli scrisse anche diversi saggi in italiano, ma è ricordato solamente per i suoi " Sonetti ". Negli ultimi anni di vita però il poeta li rinnegò, dichiarandoli: " ...sparsi di massime, pensieri, parole riprovevoli..., e rifiutando di riconoscere in essi i propri sentimenti; ...esiste una cassetta piena di miei manoscritti in versi. Si dovranno ardere! " scrisse nel suo testamento.


Una raccolta dei " Sonetti Romaneschi " uscì per la prima volta oltre 20 anni dopo la sua morte. Molti altri furono rinvenuti in seguito (alcuni dei quali incompiuti), e la prima edizione completa dovette attendere quasi un secolo, venendo pubblicata nel 1952. Molto del loro vigore è dovuto all'uso del dialetto romanesco; diversamente, un gioco di parole o un'espressione caratteristica non avrebbero la stessa efficacia, in italiano come in nessun'altra lingua. Per questo motivo la " letteratura ufficiale " non li ha mai tenuti in gran considerazione e, per quanto mi risulti, seri tentativi di traduzione non ne sono mai stati fatti. Ognuno di essi racconta un breve aneddoto, uno schizzo della vita di tutti i giorni; gli elementi principali della storia si snodano rapidamente nell'apertura, mentre i versi finali contengono una conclusione, di solito umoristica o ironica, a volte lirica o persino filosofica. Ciascun sonetto ha una struttura semplice: due quartine seguite da due terzine; la rima nella maggioranza dei casi si attiene allo schema:

A B B A - A B B A - C D C - D C D

ma a volte:

A B A B - A B A B - C D C - D C D



Ritratto di Gioacchino Belli

ER BOTTEGAIO

Chi un bucio de bottega qua vò uprì
Prima de tutto je bisogna annà
Da Monziggnor Governatore, e là
Aspettà un anno che je dichi: Sì.

Finarmente opri; e ecchete de qua
Monziggnor de la Grascia pe ssentì
Si ciai licenza, e quanno, e come, e chi:
E, visto tutto, te la fa sserrà.

Rimedi st'antra: e ecchete de sù
Er Cardinal Vicario pe vedè
Si è ttutto vero quer che dichi tu.

Quann'è ppoi tutt'in regola ch'edè?
Scappa un editto; e ssenza ditte ppiù
Te se maggneno er bucio e quer che c'è.

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